La coppa maledetta – III parte

Riassunto delle puntate precedenti: Alessandro e Roberto, amici fraterni e tifosissimi juventini, partono per Bruxelles per seguire la loro squadra del cuore impegnata nella finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool, ma per uno scambio di zaini, dovranno seguire la partita da due settori separati…

Arrivo nel mio settore. Quello giusto stavolta. Appena preso posto a sedere inizio a guardarmi intorno. Ci sono crepe sui muri, detriti di cemento a terra, la maggior parte delle sedie sono rotte e arrugginite. Lo stadio Heysel fa proprio schifo. Nonostante questo, vedo la cornice di pubblico che lo colora. È bellissimo.
Guardo la parte opposta. Un “muro” rosso si unisce al bianconero degli italiani. E Roberto è lì.
Nell’attesa mi vedo passare una canna. Accetto, siamo tutti fratelli stasera. Faccio qualche tiro, poi la passo al ragazzo che mi siede vicino. Comincio a parlarci, giusto per ingannare l’attesa. Vedo poi passare un uomo con panini e bibite. Lo chiamo, ma non è facile chiedere un panino e una Coca Cola in un’altra lingua. Alla fine ci riesco, ma dopo aver pagato, noto che nel settore di Roberto qualcosa è cambiato. Quegli inglesi del cazzo stanno facendo casino. La polizia sta intervenendo e in pochi minuti il rumore dei petardi e la nebbia provocata dai fumogeni mi fanno preoccupare. Le cariche dei “celerini” belgi si fanno sempre più costanti. Gli hooligans tentano violentemente di entrare in contatto con la tifoseria italiana fino a riuscirci. È un attimo, un frastuono enorme. La tribuna cede. Vedo, nonostante la distanza siderale, centinaia di corpi che cadono a terra. Decine e decine di persone, spaventate e disorientate, invadono la pista di atletica e il manto erboso dell’Heysel…

Con un’ora di ritardo ha poi inizio la partita. Ci sono dei teloni che coprono una parte di tribuna. E se ci fossero dei cadaveri lì sotto? Poi rifletto, razionalizzo e penso che se davvero ci fossero dei morti la partita non verrebbe giocata, ci farebbero uscire dallo stadio e tornare a casa.
Il tempo scorre, la partita si gioca però in un’atmosfera surreale. Fischiano un rigore per la Juventus. Un rigore che può portare i bianconeri in vantaggio. Platini sistema la palla sul dischetto… prende la rincorsa, l’arbitro fischia. Lui spiazza il portiere… gol! Juventus in vantaggio!
La gente dietro di me comincia ad urlare ed esultare. Mi volto, partecipando all’esultanza.
Dopo 90 minuti la partita è giunta al termine. La Juve ha vinto 1-0. È campione d’Europa, è campione d’Europa per la prima volta nella sua storia. Quando i ragazzi della Juve fanno il giro di campo con la coppa al cielo, sono felice, tranquillo. Non ci sarebbe stata una festa se ci fossero state delle vittime. Sicuramente Roberto sta piangendo di gioia dall’altra parte. Finito il giro di onore, ho fretta. Fretta di trovare Roberto per festeggiare insieme. Per fortuna riesco subito a raggiungere l’uscita.

Sono a Bruxelles. È il 29 maggio del 1985. Sono davanti all’Heysel, lo stadio dove abbiamo vinto la coppa. Lo immaginavo diverso questo momento: persone che si abbracciano, sciarpe e bandiere al vento, un’atmosfera di quelle che non si scordano mai. Invece è l’inferno quello che sto guardando…
Urla, pianti, grida disperate. Centinaia di persone, con maglie a strisce bianconere, corrono confuse. Altre sono sedute a terra spaventate. Decine e decine di tende della croce rossa sono accampate lungo il perimetro dello stadio. Degli infermieri si servono di transenne ad uso di barelle, mentre i poliziotti cercano invano di mantenere l’ordine. Sparpagliate a terra, decine di bandiere logorate dal passaggio della gente rendono surreale quel suolo.
Mi riprendo dalla vista di quell’orribile scena e mi dirigo nella zona dove ci ha lasciato il taxi, è li che Roberto mi aspetta. Sono qui. Non so neanche da quanto aspetto. I secondi sembrano minuti, i minuti ore. Un poliziotto viene verso di me, mi chiede cosa stia facendo lì da solo. Gli rispondo che sto aspettando un amico che stava nel settore Z. Mi dice che devono sgomberare la zona, che devo andarmene. Troverò il mio amico all’aeroporto. Ma sì, forse è meglio. Si è fatto tardi. Lui si sarà già avviato, o almeno lo spero…
Quando entro in aeroporto mi dirigo subito verso i tabelloni luminosi. Leggo il numero del gate e ansioso ci arrivo sbattendo e spingendo chi mi sta davanti. Ma di Roberto non c’è traccia. Fortuna che il volo ha più di due ore di ritardo. Io cammino nervosamente avanti e indietro per la sala d’aspetto riservata ai fumatori. Mi accendo una sigaretta e ogni persona che vedo passare con la sciarpa al collo mi sembra lui. Due ragazzi vicini a me parlano dell’accaduto. Da quello che dicono ci sono centinaia e centinaia di morti. Mi agito e comincio a sudare freddo. Vado al box informazioni e insieme ad altre persone, che come me cercano notizie dei loro cari, mi innervosisco perché nessuno sa darci notizie certe.
Alle 4 del mattino cominciano ad arrivare notizie ufficiali. Dicono che sono una trentina gli italiani ad aver perso la vita. Inevitabilmente penso subito al peggio. Roberto sarebbe qui altrimenti. Sono vani i tentativi delle forze dell’ordine di calmarmi. Mi dicono che potrebbe trovarsi in un ospedale locale, ma per motivi di ordine pubblico ci intimano di imbarcarsi immediatamente sull’aereo.
Sono seduto al mio posto, guardo fuori dal finestrino e poi guardo il sedile che mi sta affianco. È vuoto, come la metà di quelli che sono sull’aereo. I cori sono finiti, come le chiacchiere e le risate di quella gente che prima era felice, speranzosa. Abbiamo vinto la coppa, eh già… La gente non è felice, non osa guardarsi negli occhi. Rimane sola, immobile. Riflette e pensa al prezzo con il quale ha dovuto pagare questa vittoria. E lo faccio anch’io. Ma il mio prezzo sembra più costoso di quello degli altri. È davvero tutto finito? Senza preavviso, senza che mi sia preparato a tutto questo?
Una mano si poggia sulla mia spalla. Mi giro e vedo Luciano con un sorriso spezzato sulle labbra. Senza dire neanche una parola mi dà una foto e si allontana. La guardo. Me ne ero dimenticato. Vedo me e Roberto abbracciati. La stringo con forza fra le mani e sento un improvviso colpo al cuore. Mi sento morire. Potrei morire qui, ora, adesso. E forse era così che doveva andare. Ero io a dover morire, non Roby. Non sono mai riuscito ad essere neanche la metà dell’uomo che eri tu. Ti ho invidiato, a volte quasi odiato. Ho odiato la tua sicurezza, l’amore che ti veniva dato da tua madre, da Alice.
Eppure, nonostante questi pensieri mi pervadono costantemente, la speranza di vederlo vivo c’è ancora. La speranza di arrivare a casa e sentire sua madre che mi dice che Roberto è ricoverato a Bruxelles per ferite lievi. E che presto tornerà a casa.

Pisa, 22 maggio 1996
Sono appena tornato a casa da lavoro. Mi tolgo la giacca e la metto sull’attaccapanni. Mia moglie Sonia è in cucina, mi avvicino e le dò un tenero bacio sul collo. Roberto mi sta già aspettando sul divano per vedere la partita.
Jugovic sistema la palla sul dischetto. È il rigore decisivo. La sciarpa è sul televisore come una volta. Invece il posacenere è vuoto e una Coca Cola ha preso il posto della birra.
Jugovic ha fatto gol. La Juve è di nuovo campione d’Europa. Roberto mi viene in braccio. È felice, spensierato. Felice come può esserlo solo un ragazzino di sette anni.
E la mia mente ritorna a quella maledetta notte. A quegli anni che passavano spensierati. Ero solo un drogatello viziato, undici anni fa. Ora ho messo la testa apposto, ora ho una famiglia tutta mia. In fondo al mio cuore so che è merito di Roberto. Una lacrima di emozione cade sui riccioli di mio figlio e mentre continua a stringermi dalla gioia, vedo sul mobile accanto a me una cornice con dentro una polaroid. La famosa foto davanti lo stadio Heysel.
Chissà se in cielo avranno passato la partita, Roberto… a quest’ora, anche te starai esultando.

(fine)

© Andrea Santoni, Rossella Inglese, Gianluca Nocenti

L’immagine è tratta da www.oggi.it/attualita/notizie/2015/05/28/trentanni-fa-la-tragedia-dellheysel-il-ricordo-di-quella-maledetta-finale-di-coppa-campioni

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